martedì 30 ottobre 2012

Misurare l'abisso



La prima volta che lo vedi sembra solo un brutto film. Bassa risoluzione, inquadrature fisse, nessun sonoro. Intendiamoci, lo sai che è tutto vero, perché la storia la conosci già. Sai già che si butterà e che il paracadute non terrà. E mentre lui esita per un tempo indefinito, agitando le braccia sul bordo dell'abisso, vieni preso da una certa impazienza che può trasformarsi in stizza, per questo pessimo film in cui il ritmo è così mal gestito.

Allora? ti butti si o no?

Alla fine non si vede niente, Franz Reichelt scompare in una nuvoletta di pixel, forse un artefatto creato dalla bassa risoluzione. Oppure non è mai esistito. Ci resta solo l'impressione di un filmino strampalato, dotato di un certo humor nero, un po' lento magari. Da quel giorno di febbraio del 1912 è passata un'eternità e tutto in questo film ci appare primitivo. L'obsolescenza degli strumenti tecnologici utilizzati per registrare la realtà ha trasformato il documento in medium. Il medium scherma la realtà e la trasforma in stile, e lo stile può essere replicabile:

 

 Ma la realtà non si lascia inghiottire dallo spettacolo tanto facilmente, mantiene un nocciolo di irriducibilità, che Barthes chiama punctum, mentre Walter Benjamin inconscio ottico. Scrive Benjamin nel suo breve saggio "piccola storia della fotografia":

 la natura che parla all'apparecchio fotografico è diversa infatti da quella che parla all'occhio; diversa soprattutto perché, al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall'uomo, ne compare uno elaborato inconsciamente. Mentre è normale rendersi conto, sia pure a grandi linee, dell'andatura delle persone, non si sa invece assolutamente nulla del loro contegno nella frazione di secondo in cui "allungano il passo". La fotografia, con i suoi ausili tecnici -rallentatore, ingrandimenti- ce lo fa scoprire. Di questo inconscio ottico veniamo a sapere soltanto attraverso la fotografia, così come dell'inconscio delle pulsioni attraverso la psicanalisi.


Solo se ingrandiamo l'immagine il reale irrompe per un attimo e squarcia questo velo di finzione: il povero sarto, terrorizzato, si è reso conto che il suo paracadute non terrà ed egli morirà, ma l'apparato spettacolare, che lui stesso ha messo in moto, ha già trasformato l'uomo in un attore che deve recitare la sua parte fino alla fine. A un certo punto, dopo un'attesa che solo ora è divenuta straziante, le sue gambe cedono ed egli si lascia cadere nel vuoto, ben conscio di condannarsi a morte. in un finale degno di un film surrealista vediamo degli uomini affaccendarsi con quello che sembra essere un righello, inginocchiati per terra a misurare non si sa bene cosa, ma i loro miseri strumenti non possono dominare l'orrore del reale, che infatti si è già ritirato, per lasciare posto alle apparenze; queste ultime più docili e ben disposte nei confronti della redingote matematica (così la chiamava Bataille) con cui cerchiamo di rivestire la realtà.